Morten Tyldum (2016).

Un viaggio interstellare della durata di oltre un secolo, verso un nuovo mondo da colonizzare. Qualche migliaio di passeggeri paganti, ibernati, in attesa di essere risvegliati un paio di mesi prima dell’attracco della nave di lusso. Un passeggero che, per un’avaria tecnica, si sveglia circa 90 anni prima del previsto. Questi gli ingredienti di Passengers, l’ennesimo film che coniuga fantascienza e atmosfere solipsistiche, virate verso l’adamitico. Di per sé alcune caratteristiche pregevoli non mancano, non tanto sul lato formale, piuttosto canonico (eccezion fatta per la sequenza della piscina in assenza di gravità), quanto su quello delle problematiche etiche aperte: in primis, è giusto, di fronte alla condanna a una vita completamente isolato, condannare un altro allo stesso destino per sconfiggere la propria solitudine? Al di là del marasma di citazioni, più o meno ben gestite, quello che però fa precipitare Passengers è il deus ex machina così violento da distruggere tutta la sceneggiatura: il risveglio, a casaccio, di uno dei pochissimi tecnici in grado di sistemare l’astronave proprio nel momento in cui ce n’è bisogno. Così vanno in vacca le buone idee, come quella dell’automa-barista, intriso di un’umanità programmata che fa per davvero riflettere, o le speculazioni varie sull’amore obbligato, ma autentico, dei due protagonisti.

Peccato, c’era del buon materiale, ma, temo, Passengers finirà nel cassetto dei film di fantascienza quasi-riusciti degli ultimi. Poteva stare con Moon (2009, Duncan Jones), Pandorum (2009, Travis Milloy), Source Code (2011, Duncan Jones), Edge of Tomorrow (2014, Doug Liman), e altri…credo che farà amicizia con Transcendence (2014, Wally Pfister).