Jaume Collet-Serra (2016).

Paradise Beach: Dentro l’incubo (Jaume Collet-Serra 2016). I “film di squali” sono spesso prodotti godibili nella loro, Spielberg permettendo, tendenziale “televisività”. Paradise Beach tenta di smarcarsi da siffatto retaggio ma purtroppo fa, ironia della sorte, un buco nell’acqua. O almeno a metà. Visivamente nulla da eccepire, anzi il gioco di campi lunghi e il dialogo fra dimensioni super- e sub-acquea è spesso un regalo per gli occhi, affascinati da tanto limpido blu e dalla bellissima Blake Lively. Certo, bisogna soprassedere su un paio di cosette: 1. belle le scene di surf, ma forse 30 minuti sono eccessivi; 2. le videochiamate della protagonista, con proiezione dello schermo del videofonino su un lato dell’inquadratura, sono nel contempo filmicamente interessanti (due punti di vista della stessa scena nella stessa inquadratura), ma visivamente oscene. E però il problema è un altro: la sceneggiatura è davvero scadente, il tentativo (difficile, ed encomiabile, gliene si dia atto) di elaborazione di un film solipstico si perde in un inutile background sentimentale di cui francamente non c’era alcun bisogno. Così si assiste all’ennesima storia di riscatto e di rivalsa, di perdizione e di ritrovamento, di epifania dopo la scongiurata morte, che anziché arricchire la visione la svilisce, stancando lo spettatore con le solite cornici. Peccato, perché lo squalo era fatto davvero bene.