Andrés Muschietti (2017).

Il primo IT, quello del 1990 per la TV della bellezza di tre ore e mezza, era una perla i cui difetti abbiamo tutti dimenticato alla luce dei grandi pregi. Accade sempre così, e in fondo va bene, con i cult (onestamente, tutti amano i Goonies, ma esiste un film più difettoso?). Quell’IT lì ricopre il sacro posto delle paure infantili di più di una generazione, un luogo oscuro che, proprio in quanto tale, affascina terribilmente. Dovevamo quindi aspettarcelo che prima o poi qualcuno avrebbe tirato fuori il remake, specie nell’era della nostalgia a pacchi, specie nell’era – che sta stancando – dei nuovi miti basati sui vecchi miti (vedi Stranger Things).
Ci pensa quindi il semisconosciuto Andrés Muschietti, che già nel 2013 si era rodato nell’horror fiabesco con La madre, film à la Guillermo del Toro (che poi lo produsse) francamente dimenticabile (tant’è che io l’ho visto, e l’ho abbastanza dimenticato).

Con IT la prova è pericolosissima, ma il regista argentino la sfanga a piè pari girando un film che rispetta l’originale e lo adatta ai canoni stilistici odierni preservando l’atmosfera stephenkinghiana, quella che in fondo sostanzia l’intera storia.
Derry è una cittadina del Maine (ma va?) ove il Male con la M maiuscola serpeggia imperterrito, una giungla di periferia abitata da adulti invisibili e quando visibili disonesti, vigliacchi e morbosi (morbosità che, come vorrebbe il soggetto, mi pare più accentuata qui che non nella versione originale). I bulli di Derry sono cattivissimi, incidono la pancia dei bambini cicciottelli e sparano ai gatti per divertimento (personaggio per davvero fondamentale, quello del bullo dalla capigliatura indecente, ma non mi dilungo). Tutto è in mano, a rigor di tòpos, ai perdenti, assortito gruppo di ragazzini tutto sommato ben recitato ove fra gli altri spicca un Finn Wolfhard (Strangers Things, again, e viva l’intertestualità) con simpatica sindrome di Tourette.


Il cuore, l’amato-odiato Pennywise, IT (l’indicibile altrimenti) in persona, non ci fa rimpiangere l’allora rimarchevole Tim Curry. Bill Skarsgård è pienamente nella parte, le nuove manifestazioni del suo IT segnano una certa cifra stilistica di Muschietti e l’effetto speciale odierno è armoniosamente amalgamato con alcuni tocchi di artigianalità. Il Male si diffonde, le paure più recondite si reificano, e il Nostro clown se la spassa in un film che recupera il sostrato kinghiano (difficile, trattandosi di temi in fondo universali: il male tautologico, quello che c’è perché c’è e basta) con eleganza. Godibile e a tratti succulento, un tuffo in una fiaba nera che piacerà ai meno schizzinosi (ché tanto agli altri alla fine non va mai bene niente).


Aspettiamo il Capitolo 2.