Quali sono i più abusati luoghi comuni nel cinema degli anni 2000? I vampiri, da un lato, che hanno suggellato la fine della loro malvagia dignità con la Twilight Saga. Il mockumentary (di cui vi ho già parlato in abbondanza qui) dall’altro, che nell’immaginario popolare, da The Blair Witch Project in poi ha spopolato producendo qualche gemma, ma anche diverse oscenità. Ci voleva quindi ardimento per mettere insieme questi due mostri, uno tematico e l’altro formale, del cinema in un film solo, e Taika Waititi e Jemaine Clement inebriati da giovanile incoscienza neozelandese l’hanno fatto.

Il risultato? Straordinariamente divertente.

What We Do in the Shadows, vincitore – meritatamente – del premio alla miglior sceneggiatura al 32esimo Torino Film Festival appena conclusosi, non è un finto documentario, ma com’è giusto che sia, è la messa in scena della fase di produzione di un finto documentario. Una troupe mai visibile (raramente lo è in questo genere) riprende le (non)vite di un eterogeneo e simpatico gruppo di vampiri, che (non)vivono in un oscuro villino nei pressi di Wellington, capitale della Nuova Zelanda. Narratore principale è Viago (Taika Waititi), vampiro dandy non-morto (o non-vivo) da un paio di secoli. Assieme a lui ruotano le non-vite dei coinquilini Vladislav (Jemaine Clement), classico succhiasangue di matrice transilvana, seduttore e torturatore, e Deacon (Jonatan Brugh), vampiro nazista, ovverosia crasi fra le due più famose forme di Male Metafisico occidentale; eppure ama le giacche appariscenti e le danze erotiche. Infine, presente nella sua assenza, l’ultramillenario (8000 anni per la precisione) Petyr non esce pressoché mai, e a vederlo tutti sorridono impauriti perché sostanzialmente è Nosferatu.

Il quadretto è completo, e lo show può iniziare. Il film mette in scena l’ordinaria e disordinata vita dei quattro umanissimi mostri sfruttando lo stesso espediente di Twilight, ma in chiave sarcastica, forse caustica. Nell’arcinota e arcisfottuta saga i vampiri alla fine non sono niente di più che umani con qualche potere aggiunto, soggetti a tutte le bassezze che l’uomo ha in sé, in primis l’amore. Similmente la combriccola di What We Do in the Shadows fa i conti con le faccende che, volenti o nolenti, tutti devono affrontare: lavare i piatti, co-gestire una dimora senza troppe guerre intestine, divertirsi ogni tanto la sera per locali, e così via.

Ecco dunque scaturire le risate sincere nel pubblico. I vampiri, che ormai non fanno paura a nessuno, esistono eccome, e sono dannatamente simili a noi. A ben vedere dunque Clement e Waititi, talentuosi cineasti e godibili attori, non è che sconvolgano così tanto il discorso sul vampiro. E però ci nuotano dentro in maniera consapevole, e soprattutto postmoderna (parola da usare con cautela, ma in questo caso considerevolmente calzante). Già, perché se il vampiro ironico e parodistico è roba datata (Per favore non mordermi sul collo – Roman Polanski 1967, Dracula morto e contento – Mel Brooks 1995, Vampiro a Brooklyn – Wes Craven 1995, etc etc etc), e quello strenuamente umanizzato pure (Twilight Saga, ma anche Intervista col vampiro – Neil Jordan 1994, tanto per dirne uno), i due registi neozelandesi sembrano maneggiare la storia della narrazione vampiresca facendola dialogare nel contempo col suo passato e con il suo futuro.

Chiave di lettura di questo passato è l’alterego Petyr, tale e quale a Nosferatu (1922, Murnau). Egli c’è, perché senza di lui non ci sarebbe tutto il resto, ma mantiene un distacco dalle sue versioni recenti, figlie di uno “spirito del tempo” che a lui non si confà. Anche se poi, che lo voglia o no, ogni tanto manifesta la sua presenza, e nelle esilaranti fotografie in apertura che non spoileriamo per lasciarvi il piacere totale della visione, e soprattutto nelle caratterizzazioni vampiresche degli altri protagonisti, che per quanto moderni possano apparire sembrano vivere in una bolla temporale fuori dal mondo, non conoscono i cellulari o le aste online, e soprattutto continuano a non sopportare la luce, l’argento, i crocifissi, e il generale armamentario antiDracula che tutti conoscono.

Il futuro è invece quello rappresentato da Nick (Cori Gonzales-Macuer), novello neovampiro adescato dalla goffa ciurma e che, fresco fresco del suo nuovo immortale status riesce a rompere gli schemi imposti dalla tradizione, prima portando nella magione un umano dalle belle guanciotte rosse e ottenendo una protezione per lui in maniera tale che non diventi il pranzo di nessuno, poi addirittura ponendo fine alla secolare faida fra vampiri e lupi mannari e facendo terminare il film a tarallucci e vino, che tanto siamo tutti diversamente mostri, e – a riprendere la felice etichetta proposta a Torino nel 2011 in occasione di una mostra a tema (con tanto di volume curato da esperti dell’argomento quali Peppino Ortoleva e Giulia Carluccio) – diversamente vivi.

Certo il discorso sul vampiro non si esaurisce, e non si esaurirà qui. Al cinema fra pellicole e saghe più o meno sagaci (bieca gratuita allitterazione che alletta gli allocchi, cfr. Eco) vampiri sono sbocciati e si sono radicati nell’immaginario collettivo (da Vampyr, 1932 Dreyer, che per i cinefili è un must, al Dracula il vampiro, 1958 Fisher, fino al più recente Dracula di Bram Stoker targato 1992 Francis Ford Coppola), e altri non-morti dalla dentatura sporgente sono velocemente caduti nel dimenticatoio (fatevi un giro su internet, ma vi cito così a mo’ di curiosità un italianissimo Zora la vampira, 2000 Manetti Bros). Magari in seguito ne affronterò più a fondo determinate sfaccettature. Quello che è certo è che What We Do in the Shadows nello sterminato panorama del cinema vampiresco riesce a trovare uno spazietto interessante e che, ne siamo certi, non sarà dimenticato. VIVRÀ…PER SEMPRE.