Lo slasher non è mai stato così divertente

 Rey Ciso è un uomo reciso (nomen omen). Reciso nell’animo, perché incatenato ai fasti d’un glorioso passato che oggi non c’è più. Reciso nella società in quanto specchio della sua mansione lavorativa: fa il montatore cinematografico che taglia le bobine impressionate dai volti noti delle star. Reciso nel corpo, giacché mancante delle dita in una mano, perse per via di un contraddittorio incidente in sala di montaggio.

Ma Rey Ciso non è l’unico meta-personaggio di The Editor, nostalgica e riuscita parodia canadese di Adam Brooks e Matthew Kennedy (2014). Egli si muove infatti in un mondo splatter costellato di mutevoli topoi italotipi fuoriusciti violentemente, come il fiotto di sangue da una carotide ben recisa (per l’appunto), dai cult di un certo cinema anni ’70-’80.

Insomma, se non lo si credeva possibile, siamo di fronte ad un’estremizzazione del cinema tarantiniano: quello che già di per se gode nel rivoltare i generi trasformando i vizi stilistici in cortocircuiti ermeneutici divertenti e auto-riflettenti. In The Editor questa idea di cinema che usa se stesso per parlare di se stesso è radicalizzata, in misure che il Maestro di Pulp Fiction solitamente nemmeno annovera. Rey Ciso, di fronte allo specchio, ha un breve litigio con una tipica macchia da pellicola B-Movie; questo Tarantino semplicemente non lo fa. L’elemento meta- è costante, ma nel suo cinema i mondi, quello del film e quello dello spettatore, non vengono – almeno fino ad ora – mischiati.

E a tutti gli effetti The Editor È una pulp fiction; la storia si regge su una continua e sempre più assurda sequela di omicidi che avvengono all’interno di un set cinematografico dove man mano realtà e finzione si polimerizzano fino a divenire indistricabili. Di per sé tale formula narratologica non risulta connotata da pregnante originalità, perché in fondo, tanto per citarne uno, c’è l’INLAND EMPIRE di David Lynch (2006) che fa lo stesso. E anche Lynch, in una certa misura, paròdia se stesso. Così come ugualmente la discrepanza fra pellicola e realtà spettatoriale ha radici antiche e periodicamente rispolverate in film spesso anche molto diversi, dal registro alleniano a quello hanekiano e così via.

Nondimeno nel caso in questione quel che ne fuoriesce è un laborioso esercizio citazionistico e modulare dove man mano i generi si intrecciano, litigano fra loro, e i riferimenti formali non si contano più. C’è tutto il discorso di base che permea l’intera opera, quello che esplicitamente omaggia Lucio Fulci e Dario Argento (il main theme è composto da Claudio Simonetti, e già basta per fare venire l’acquolina in bocca agli amanti del genere), e ancora Mario Bava, Ruggero Deodato, a tratti il Pupi Avati di qualche decennio fa. Poi come già detto si aggiungono le continue assonanze tarantiniane, corroborate forse da uno dei tanti fil rouge che si inseguono di minuto in minuto: la tarantola. E poi Hitchcock, ripreso in maniera sottile, con rimandi intrasequenziali resi evidenti tramite inquadrature inconfondibili: ci sono ad esempio il campanile de La donna visse due volte (1958), o l’indimenticabile doccia, e l’indimenticabile teschio, memore di Psyco (1960). Ci sono l’abbattimento della porta a colpi d’ascia – un’ascia comparsa tramite sarcastico deus ex machina – che chiunque associa a Shining (Kubrick 1980), o l’intero impianto narrativo de La nona porta di Polanski (1999) che sfocia in un finale satanico. C’è, più palese e meraviglioso che mai, il David Cronenberg di Videodrome (1983).

E altresì il continuo susseguirsi di coltellacci e motoseghe a trastullare un’estetica, quella degli italiani di cui sopra e non solo, tipicamente slasher, che rimanda alla quadrilogia magnifica di Scream (Craven 1996, 1997, 2000, 2011), al recente Dead Snow (roba di nazisti zombie, 2009 Wirkola), a quant’altro vogliate aggiungere. C’è Udo Kier, leggenda vivente, che interpreta il masochista dottor Casini. C’è l’inseguimento à la Hazzard. Ci sono gli stilemi degli spaghetti western. Ci sono le zoomate innaturali sugli occhi terrorizzati, gli urli più o meno motivati. Ci sono i rimandi al cinema erotico di Tinto Brass. E un sacco di altra roba.

C’è tutto? Probabilmente sì. Ma un Tutto accuratamente selezionato, che fila, che fa ridere il cinefilo ghiotto tenuto all’amo dal gioco canadese a cui sta assistendo. Una visione non basta. E non finisce qui, ma il resto lo colga chi ha voglia di cercarsi questo film così eccessivo da apparire, alla fine dei conti, davvero raffinato.

Nota a piè di pagina. Non ci crederete, c’è anche una pseudomorale: la chiave di tutto, nel cinema, sono gli occhi.