Maze Runner – i minotauri del 2014 sono giovani e aitanti

Maze Runner è, in via piuttosto definitiva, uno di quei film di cui non si sentiva la mancanza. Questo non perché formalmente pecchi di qualche difetto (di certo nemmeno spicca per originalità), ma poiché anche ai rimpasti c’è un limite. Un gruppo di ragazzi, di età indefinita fra l’adolescente e il giovane andante – target fruttuoso per l’industria letteraria degli ultimi anni – si ritrovano catapultati in una misteriosa radura contornata da gargantueschi labirinti ricolmi di avversità. Privi di memoria.

Se il cervello vi sfrigola e non rammentate dove “avevate già visto” questa premessa, beh si tratta di Cube (Vincenzo Natali, 1997). Erano 17 anni fa e un gruppo di eterogenei personaggi (non adolescenti) si ritrovavano in un misterioso labirinto tridimensionale irto di trappole mortali. Privi di memoria. A differenza però del dedalo tratto dal romanzo di Dashner, lì i personaggi avevano spessore, erano variamente intriganti, certo in un qualche modo ricoprivano stereotipi di varia natura ma quantomeno interagivano in maniera decisamente meno banale degli iperpalestrati della radura (eccezion fatta per il simpatico Chuck, paffutello e pacioccoso che risolleva le sorti dei moderni minotauri con un po’ di giusta autoironia). Ergo: se proprio dovete, guardatevi prima Cube, magari la trilogia (Cube 1997, Hypercube 2002, Cube Zero 2004).

Come di consueto i ragazzotti abbandonati a loro stessi costruiscono una società in bottiglia ove ognuno ha il proprio compito e i vari ruoli subiscono un processo di nomenclatura che odora del simil-polpettone Divergent (2014, Neil Burger). In quest’ultimo caso c’erano i Divergenti, gli Abneganti, e compagnia bella a sistematizzare una società distopica che deve avere sotto controllo i propri membri a tal punto da categorizzarli esplicitamente. Qui nel piccolo della radura labirintica ci sono i Velocisti, corridori provetti addetti alla mappatura diurna del labirinto, i Medicali, addetti alle cure, e così via. Perché non riferirsi a “quelli che corrono veloci”, o ancora, udite udite, “dottori”, resta un mistero. Ma insomma, è abbastanza evidente come il modello sia quello della Twilight-mania oramai quasi del tutto esanime: una gioventù completamente distaccata dal mondo degli adulti, Speciale (a livello quasi-genetico), capace di grandi imprese. Se a qualcuno non venisse nuovamente in mente, James Matthew Barrie più di cento anni fa lì chiamava Bambini Perduti; peraltro non “minimi” perché erano piccoli, o “nomadenti” perché senza casa, ma semplicemente “bambini perduti”.

Come sempre accade in queste narrazioni poi, la rinata società attraversa un processo parabolico che la spinge a vivere un apice glorioso (il momento in cui, in termini psicanalitici, la prigionia viene negata dai prigionieri che pensano di potersi ricostruire una vita felice nel boschetto) seguito da una rovinosa caduta, introdotta, in termini di psicologia sociale, dal cambiamento. Il cambiamento è, più o meno sempre, l’inserimento di uno o più elementi esterni che minano le fondamenta dell’ormai solida comunità: Thomas prima, Teresa poi, unica (bellissima) ragazza inserita nella radura. Insomma in poche parole i Nostri iniziano a confliggere fra loro stessi, capiscono di essere alleati ma in un certo senso anche nemici. Nell’aria si può ben sentire aroma di, così ad esempio, Il signore delle mosche (Golding 1954). Ma anche, cambiando medium, l’eccelso Battle Royale (Fukasaku 2000). Perché no, pure Lost.

Il pericolo viene dunque da dentro o da fuori? Bella domanda. Anzi no, domanda dozzinale trita e ritrita. Perché mentre Thomas e il lentigginoso Gally litigano sul da farsi e se le danno di santa ragione nella mente sovvengono dimenticati capolavori del calibro di The Village (Shyamalan 2004), dove davvero la questione si coniugava in modalità filmicamente, narrativamente e (im)moralmente interessanti.

E intanto il mostruoso labirinto diventa l’unica via di fuga, in sala lo sapevano anche le poltrone, e i ragazzetti con ragazza femmina e bella al fianco vi entrano di punto in bianco, galvanizzati da quel giovanile coraggio costruito appositamente perché il pubblico vi si identifichi. Sì, proprio come nei Goonies di Chris Columbus del 1995, ma anche in tutto quel bel filone spielbergiano che fa luccicare le pupille di chi queste emozioni di partecipazione le ha vissute com’erano all’origine del genere “cinema per grandi e piccini”: E.T. – L’extraterrestre (Spielberg 1982), Stand By me – Ricordo di un’estate (Reiner, 1986), La storia infinita (Petersen 1984). Più recentemente, tanto per lanciare, il dubbio Super 8 (Abrams 2011).

Infine, ma solo per noia del recensore, come non citare il tema del mondo in scatola dove il prigioniero è osservato ma non può osservare. Puro – e in origine divertente – complottismo cinematografico. Ma non si dimentichi che questa idea arriva, almeno, dal panopticon di Jeremy Bentham, progetto di carcere ideale ove la guardia può osservare tutti i detenuti mentre questi ultimi risultano completamente isolati gli uni dagli altri. L’isola di Lost è panottica, quella di Battle Royale altrettanto, ma ancor più panottico è il luogo ove i “carcerati” sono inseriti per motivi sperimentali. Ecco perché Maze Runner si conferma come ulteriormente banale: nel film, giacché nel romanzo (a James Dashner quel che è di James Dashner), non c’ è niente che lotti per la conquista di un’autonomia estetica o il rilancio di temi già altrimenti trattati prima. Sorge dunque la domanda: perché allora non rileggere L’isola del dottor Moreau (Wells, 1895), o non riprendersi in mano il dvd di The Truman Show (Weir 1998). Perché non rispolverare il poco noto The Experiment Cercasi cavie umane (Hirschbiegel 2001, da cui remake del 2010) o sfogliare i report degli esperimenti di Zimbardo. Perché non interrogarsi sul The Island (Bay 2004) che è praticamente la stessa cosa, o meravigliarsi di fronte all’episodio futuristico di Cloud Atlas (Wachowski 2012), che tanto più o meno siamo lì.

E, visto il finale al sapore di cospirazione, ultima piaggeria a un genere che se esisteva è stato del tutto stuprato, perché non tornare sui vecchi classici di Huxley e Orwell, o per restare nella contemporaneità, divertirsi maggiormente con The Conspiracy (MacBride 2012).

Forse un pizzico di pepe però Maze Runner ce l’ha: al labirinto “piace cambiare”. Un attimo, non vi ricorda qualcosa?