Morti mockumentarie e giochi di sguardo

È iniziata con The Blair Witch Project (1999), e non si è più fermata.

La mockumentary-mania è dilagata, con quel substrato di valenze estetiche che porta generalmente con sé, in primis, una certa semplicità dell’impianto narrativo di fondo motivata da esigenze tecniche (a dire il vero non insormontabili) sulle quali qui, per ora, si sorvola. Se ne sono visti a centinaia di morti dalla presunta strega di Blair in poi: i poveri condomini di [REC] (2007) e [REC2] (2009) divorati dalla loro stessa rabbia, gli sposini indemoniati cult di Paranormal Activity (2007) e seguiti, i coraggiosi reporter di ESP – Fenomeni paranormali (2011) in cerca di rogne in un ospedale psichiatrico abbandonato, gli impotenti cittadini di Cloverfield (2008) che nulla hanno potuto contro gli ostili alieni (si segnala nel merito anche il meno conosciuto Monsters del 2010), e molti altri ancora. Dove regna la shaky camera, lì v’è nascosto il tristo mietitore – o mietitrice, per chi ha amato Le intermittenze della morte di Saramago.

Quel che si evince da tanto affannoso dispendio di vite umane nel mockumentary lascia quantomeno perplessi: la videocamera non muore mai. Non c’è bisogno di essere degli statistici di fama per dedurne una sorta di macabro determinismo per il quale è la camera la vera causa scatenante i genocidi filmici dai quali, forse catarticamente, traiamo godimento. Sarebbe bello asserire che questa tesi è tutta farina del sacco di chi sta scrivendo, invero si consiglia la visione attenta dei Funny Games (1997-2007) di Michael Haneke: lì, senza shaky camera né simili dispositivi enunciativo-retorici, si vedranno chiaramente esposte le teorie sulla finzione che in questo articolo vagamente si esporranno.

La videocamera dunque, celata in grande parte del cinema classico hollywoodiano, riscoperta a targhe alterne nel cinema moderno, è nel mockumentary postmoderno (se l’aggettivo ha senso) ingrediente fondamentale giacché essa sostanzia la narrazione. Il lettore provi a farci caso, c’è sempre di mezzo un cameraman, un telefonino, un device di qualunque sorta che si rende testimone della violenza poiché è lì quando essa accade. La domanda di fondo, sperando non pecchi di esistenzialismo spiccio, è se la violenza suddetta si sarebbe manifestata senza la presenza dell’occhio meccanico. A tutti gli effetti parrebbe di no semplicemente ponderando su alcuni dei casi succittati: chi non ha mai pensato, con la mano semi-aperta sugli occhi (per vedere senza essere visti), che gli stolti di The Blair Witch Project se la siano cercata? In effetti è la loro volontà documentaria a sancirne la brutta fine. Non è lo stesso per i para-investigatori modello “Mistero” di ESP? E, a rigor di logica, sarebbe toccata ugualmente l’amara sorte all’avvenente giornalista di [REC] se fosse rimasta a casa anziché scorrazzare per Barcellona a caccia di guai?

Il lettore scaltro penserà che certo, c’è una qualche sorta di surdeterminazione fra dispositivo della ripresa e momento della narrazione improntato sulla violenza, ma non sempre è così, alle volte la videocamera viene dopo. L’innocente moglie di Paranormal Activity in effetti è posseduta a prescindere dal medium (non quello che interviene nel film a scacciare gli spiriti, bensì il mezzo di comunicazione), ma allora come mai il film si compone in una serie progressiva di collage ove la violenza si scatena, guarda caso, sempre nel momento della ripresa? E fra l’altro, chi le ha montate quelle immagini?

Seriamente, è evidente che nell’interpretazione di questo genere di film, a parere di chi scrive estremamente interessanti dal punto di vista ermeneutico, bisogna includere un approfondito discorso circa la violenza nascente dallo sguardo. La riflessione assume tratti marcatamente metafilmici, giacché il cinema è di per se stesso messa in mostra di uno spettacolo intrinsecamente voyeuristico. Tuttavia la questione non si esaurisce così rapidamente dal momento che entrano in scena componenti psicosociali altre. Non solo infatti la videocamera attira la violenza, ma anche non contenta annulla l’istinto di autoconservazione di chi l’ha indosso. Camera homini lupus. Nuovamente si presti attenzione al modus operandi del cameraman nei film in questione. Può succedere di tutto ma la camera, come la nave per il capitano, non si abbandona, meglio morire con lei. Stupidamente, perché lei, per forza di cose, dovrà sopravvivere fino alla fine del film. L’aura che si crea intorno alla pratica della ripresa viene investita di una forza quasi mistica, da un lato questa preserva l’integrità di chi la porta con atteggiamento simbiotico (il portatore non può vivere senza la camera, dal momento che diverrebbe diegeticamente sacrificabile, e la camera non può muoversi senza il portatore), dall’altro lo trasforma in un dead man walking che – salvo casi eccezionali – non solo dovrà assistere alla messa a morte di buona parte di coloro che ha intorno, ma alla fine tendenzialmente sarà l’ultimo ad essere falciato. Spettacolo finito, la camera cade a terra, solitamente di lato, titoli di coda.

Il problema di chi monti le immagini resta, ed è un problema squisitamente coerente con i temi in questione. Se nel cinema classico il film ci è presentato come prodotto autocreatosi, e la presenza della videocamera è in esso celata così come il montaggio (lo spettatore semplicemente non ha bisogno di chiedersi chi riprende o chi monta), nel new-horror mockumentario queste domande non solo sono all’ordine della narrazione, ma costituiscono il fulcro estetico fondante l’ermeneutica dell’opera. In alcuni casi la risposta ci è fornita, senza troppa convinzione: qualcuno per caso ritrova i nastri e li rende pubblici, dopo un montaggio in post-produzione o semplicemente così come sono, con il loro montaggio “naturale” conseguente all’on/off di chi aveva ripreso. In altri casi, i più stimolanti, non solo non sappiamo come certe immagini ci siano pervenute, ma ci pare anche abbastanza improbabile inferire che le abbia trovate qualcuno che passava di lì per caso. E allora interviene l’anima del mockumentary: le immagini alle quali assistiamo semplicemente ci sono perché esistono come rapporto di sguardi. La violenza alla quale assistiamo, la scarsamente credibile lotta per continuare a riprendere anche nei momenti più pericolosi, manifestano la loro esistenza in un dominio metaforico, si propagano all’atto della visione, semplicemente più giocano con l’iperrealismo più in maniera sotterranea ci urlano di essere finzione. Chi monta le immagini è dunque lo spettatore che le guarda, così come lui è il passante che le ha ritrovate. L’intera macchina cinematografica che vi è dietro è annullata, sospensione dell’incredulità, come nel più classico dei cinema classici. In una bellissima sequenza della bilogia [REC]`(ne esiste un terzo ma è staccato) il mistero viene svelato: nel controsoffitto dello sventurato condominio alcune cose esistono solamente se riprese con la visione notturna. L’intero mondo del rappresentato sottosta allo sguardo della macchina da presa, l’intero film per transitività sottosta allo sguardo dello spettatore. L’occhio e la macchina da presa sono infine la stessa demiurgica entità.

Guardare, essere guardati, morire, veder morire, questo è lo spirito del tempo (Morin) nel new-horror mockumentario. I protagonisti continueranno a morire, le videocamere continueranno a vivere. E non è filosofia signori, “è il cinema, bellezza! E tu non puoi farci niente!”.