John Butler (2013).

Produzione irlandese che declina a modo suo tutta una serie di situazioni narrative ampiamente sedimentate nel cinema statunitense: l’addio al celibato in cui la profondità di ogni personaggio verrà a galla, la notte da leoni indimenticabile, il tizio che partecipa di straforo ma che poi fa da collante per la compagnia, etc etc etc. The Stag fin da subito scopre le sue carte, ammettendo con fin troppa onestà che non sarà sua intenzione proporre niente di nuovo, ma soltanto dire che anche gli irlandesi possono fare certi film. Possono? Pare di sì. Nonostante i primi venti minuti lascino davvero a desiderare (un estenuante serie di campi e controcampi con attori – che poi si riveleranno in gamba – ancora trattenuti, e una serie di pillow shot a casaccio) la storia poi ingrana per il verso giusto attraverso snodi anche inaspettati e inaspettatamente scorretti (l’assunzione comune di MDMA ad esempio non ha niente da invidiare alle trovate di Todd Phillips), fra gag slapstick ed equivoci agrodolci. Intanto il pattern si dispiega, i personaggi sciolgono i loro crucci e in un percorso involutivo da cultura a natura, suggellato dalle sequenze piuttosto lunghe della svestizione e della nudità (tipo la Human Nature di Gondry, ma più irish), trovano loro stessi, non a Las Vegas ma nei boschi dell’Eire. Il finale, a dimostrare che la cinematografia irlandese contemporanea deve ancora pensare bene se stessa, manda tutto in vacca, non tanto con il matrimonio conclusivo che rientra pienamente nel modello, quanto nel discorso finale fatto da The Machine, che da personaggio fuori dagli schemi e fiero di esserlo si lancia in un’epidittico patriottico di cui nessuno sentiva il bisogno, a dirci con fiera tautologia che l’Irlanda è bella perché è l’Irlanda.