Niente da fare, il soggetto distopico spopola, e The Rover (2014, Michôd) presentato al 32esimo Torino Film Festival ne è la prova. Un barbuto e trasandato vagabondo (rover per l’appunto) girovaga in un outback post-apocalittico australiano, apparentemente senza meta. Si ferma in cerca d’acqua, quanto basta per farsi sgraffignare l’amata automobile da uno sparuto gruppo di poveri diavoli.

Da qui parte l’ennesima distopia cinematografica di questi anni che, per scansare le malizie facili dei più perfidi critici, sancisce fin da subito il provocatorio intento di ritagliarsi uno spazio estetico tutto suo all’interno dei registri dell’inflazionato genere. Siffatta lodevole intenzione getta le basi per un film spiccatamente antihollywoodiano tanto nella forma lenta, spossante, prepotentemente a-ritmica, quanto nella sostanza di una trama coraggiosamente esile, on the road dall’inizio alla fine, sorretta da un impianto drammaturgico fantasmatico. Ebbene sì: The Rover visto in tal senso rappresenta la voglia di uscire dagli schemi dell’armageddon canonico fatto di contagi virulenti, zombie sostantivati nell’espediente del colpo di scena, e più in profondità ricerca di un’assoluzione da parte dell’umanità responsabile della sua stessa Caduta.

Eric (Guy Pearce), il protagonista del film, viaggia di un viaggio che non ha niente di kerouachiano (in questo senso diversamente dalla coppia padre-figlio di The Road, 2009). Non cerca se stesso nelle lande desolate di un’Australia ridotta a steppa perpetua, allargata – nei suoi spazi già notoriamente larghi – verso un orizzonte lontano e intangibile. Nemmeno cerca di ricostruire una qualsivoglia sorta di buon vivere sociale in un mondo oramai inaridito e in mano agli sciacalli/avvoltoi (v’è un avvoltoio, a un certo punto, estremamente significante). Eric, semplicemente, cerca la sua automobile; ed è disposto ad uccidere pur di riprendersela. In un territorio dove nessuno è più padrone di niente, e dove è possibile entrare nelle case trovandovi accasciati derelitti immersi nel loro nulla, il non-eroe ( da antieroe) di The Rover rivendica ciò che gli è rimasto come diritto imprescindibile. In un mondo senza più diritti le proprie misere proprietà si fanno diritti solidi, da difendere a colpi di pistola in fronte.

A tale personaggio depauperato di ogni umano pietismo (almeno così pare) si affianca il disadattato Rey (un Robert Pattinson che pare recitare in grazia di Dio), ragazzotto problematico con difficoltà motorie e relazionali forse affetto da Sindrome di Asperger (ma questa è pura ipotesi di chi vi scrive). Egli ricopre il ruolo di compagno di viaggio dell’asettico Eric, ne è ostaggio e rapitore nel contempo, sembra stabilire con esso una sorta di obbligata amicizia. I due si spostano, si scontrano con chi gli capita a tiro, infine giungono all’agognata automobile.

Nel bel mezzo v’è solo l’imperturbabile susseguirsi degli eventi, che si rifanno a un passato sconosciuto e che il regista non mira a farci conoscere. Tanto meglio, che di contentini narrativi è pieno il mondo. Non sappiamo niente della storia del taciturno Eric, se non qualche accenno magari pure menzognero, così come ancor meno sappiamo del povero Rey. Eppure una serie di circostanze, la Contingenza, un sistema di nessi causali, ce li presentano come protagonisti di quella che non è un’avventura, ed anzi a tratti non è nemmeno una Storia. Che sia una distopia lo azzardiamo da alcuni indizi, ad esempio un beffardo incipit testuale che ci rimanda ad un futuro prossimo collassato.

Eppure tutto fila, specie se lo si legge in funzione di un proficuo accordo stilistico fra espressione e contenuto. Un continuo stagliarsi di campi lunghi mostrano meravigliosi paesaggi, e all’alba e al tramonto, come scenari degli avvicendamenti dei due pellegrini, puntini di un ambiente che esiste pure – e forse meglio – senza di loro. Piani sequenza sorretti da quasi insensibili movimenti di macchina riflettono un diffuso senso di vuotezza intervallandolo a pause di senso timidamente emergente, come nel commovente momento in cui Rey canticchia in macchina una canzone sentita in radio. Musiche acusmatiche si confondono con silenzi pienamente intradiegetici.

The Rover è in conclusione apprezzabile poiché esplicitamente provocatorio nei confronti non solo di un genere, ma di un’intera modalità di percezione del testo filmico. Non fa l’occhiolino allo spettatore sistemando (o spiegando, che per lo spettatore è soddisfacente abbastanza) le cose, ed anzi nemmeno si disturba a fornirgli un set narrativo chiaramente intellegibile. Lavora su registri altri, quelli dell’evocazione, della suggestione, della sensazione.

E infine (SPOILER ALERT: ma se avete letto fin qui tendenzialmente non siete di quelli che si infastidiscono) affida a un cane l’ultimo scampolo di un’umanità distrutta.