John Lee Hancock (2016).

Dovevamo aspettarcelo, che l’ondata inarrestabile del biopic dopo Stephen Hawking, Steve Jobs, Mark Zuckerberg, solo per citarne pochissimi fra i più recenti, e così ad libitum, ci avrebbe condotto anche alla vita di McDonald. E così è stato. Non Ronald, sciocchini! La vita di McDonald è in realtà quella di Ray Kroc (interpretato da un Michael Keaton più viscido che mai), che ai McDonald(s) originari(li) comprò, per quattro spiccioli, l’idea di fast food prima, e il nome poi. Così il film di Lee Hancock, che sulle biografie sembra stia volendo costruirsi la carriera (nel 2013 il suo Tom Hanks era Walt Disney, nel 2009 passava per la sua regia la vita del giocatore di football Michael Oher), romanza la nascita di un impero costruito a suon di american dream, da un self made man come solo negli anni ’50 negli USA (si legga : “iu-es-ei!”) si potevano vederne. Non tuttavia unicamente celebrativo, The Founder non solo esalta l’isotopia della persistenza, senza la quale l’America prima, il mondo poi, non sarebbero stati benedetti dagli archi dorati di McDonald, che oggi uniscono simbolicamente New York e Seoul, Nuova Delhi e Berlino. Il personaggio di Kroc è chiaramente ambiguo, accecato dalla smania di successo, di edificare il proprio personale culto: una chiesa fondata sugli hamburger. Così il film ci mostra anche la spietatezza del sistema capitalistico, che proprio in quegli anni negli USA cementava il suo funzionamento; perché ci sia McDonald’s devono essere usurpati i McDonalds e il loro idealismo, perché il franchise funzioni il milkshake deve essere fatto con latte polverizzato. Ecco dunque emergere la politicità sotterranea di un film ambiguo fino al midollo, che (mi) pare infine però più sbilanciato verso l’elogio che non verso la condanna. Per i ferventi attivisti che abbiano letto fin qui: non ci sperate, la vicenda si chiude negli anni ’70, e gli scandali avvennero tutti dopo (sarà indicativo? Boh, ai posteri l’ardua sentenza).