Passatempi aulici
A volte espleto la mia grafomania con poesiole di varia impronta. Qui ne trovate alcune. Non ridetene troppo, sono state quasi tutte scritte quand’ero adolescente.
Se vero è
che siamo solo atomi
effimeri corpuscoli,
allora l’innamoramento?
i non luoghi
che vivifichiamo?
Noi, capaci
di amicizie
supermercati
deplorevoli belligeranze
amorevoli beatitudini,
estatiche ignoranze,
siamo solo atomi
effimeri corpuscoli?
Se così è
vacui simulacri
siamo la pienezza,
Noi, tangibili
contraddizioni
inevitabilmente
Umani.
Tessitori
di intime felicità
giocate ai dadi,
mondo scacchiera,
infinitesimi atomi
effimeri corpuscoli,
eppure
parziale
causale
universale
Tutto.
Amore?
S’illuminano
di bronzea luce
le gote tue,
e fulgidi gli occhi,
singoli splendidi acini,
nel sorseggiar si fanno vitree sfere
ove scorgere l’intera
mirabile umanità.
Nel degustare
l’incanto di questo vino,
assieme a te rivedo
epifanie dei nostri natali,
e gioisco del vitale arrossamento
corteggiante gli angoli
della bocca tua.
Né
degli arditi arrovellamenti
né
delle impavide spudoratezze
mi beo di fronte a te,
uomo, vero, abitante d’oceano,
giunto a noi tra gli impervi
tragitti sciagurati,
delle tue Afriche
del nostro scirocco.
Nemmeno
dei venti abbiam cura
di esser figli,
quando fratelli senza
più patria
imbarcano le anime
su quelle canoe
d’antinferno.
Non è la colpa
che scrive,
non è l’obbligo,
sono io,
pulito e sazio.
È la vergogna.
Sono IO che ti chiedo
di donarmi una scaglia
della TUA dignità.
Qual confusione mai
mi fa vibrare le corde dell’essenza
come te?
di fronte ai tuoi occhi di specchio
amica, amante,
riflesso rabbioso a volte
in dispute culminanti nell’abbraccio.
Eppure nell’attrito tenace
delle nostre notti insonni
leggo il dialogo più vivo,
come foglia autunnale
che riposa su pozzanghera
e frinire di cicala, colma
il silenzio estivo
Questo è il dialogo nostro
tensione poggiata sull’assenza
stipata a risuonar di senso l’etere.
Parole e grida disperate
sussurrate esalate
a manifestare nella loro
effimera
temporalità
che noi siamo,
dall’altro a tutt’uno di movimentata sabbia,
nel dialogo noi siamo.
Persi per sempre
nelle corsie dei nostri mostri supermercati
Ancora non siamo,
se con forza distruggiamo
i muri dei labirinti effimeri
a riprendere il senno d’essere senso.
Spento il televisore,
la fiammella quasi spirata arde di nuovo pneuma,
le valvole dei miei occhi rivedono i tuoi
vivi ancora dietro il vitreo riflesso dello schermo.
Ancora siamo senso,
se del senso bramiamo nutrirci
l’un l’altra.
Insipide, banali dicerie di perdizione
Pullulano nelle viscere dei salotti perbene,
assuefatte,
rimembrano le chiacchere dei vecchi di Catullo,
così grandi, così inutili,
sulla majakowskij eco,
non lo sanno e già sono cenere.
Persi per sempre,
nei nostri film domenicali
Ancora non siamo,
se con forza distruggiamo
i muri dei labirinti effimeri
a riprendere il senno d’essere senso,
Se per Noi – se per l’Altro.
Sembra Ieri
a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il caldo afoso siciliano
le lenzuola stese al sole ad asciugare
l’inebriante profumo di arance nell’aria
e le strade costeggiate
dagli eterni fichi d’India
scarlatti, vividi, immemori.
Nella loro memoria rivivono
il coraggio, la temerarietà,
la splendida adolescenziale spregiudicatezza
di due bambini, che non vollero crescere.
Lottarono contro i mostri
sotto tutti i nostri letti personali.
E rivivono
nelle mie, nelle nostre,
semplici quotidiane gioie.
Sembra Ieri,
ed è ancora oggi.
Grazie.
Fra le intercapedini dei nostri impegni
riusciamo a trovarci,
Comunicarci.
Fra le pieghe semiotiche dei nostri sguardi,
significhiamo l’Amore.
Ecco cos’è:
un apostrofo rosa
fra le parole
“Candy Crush”
Non andai più via.
L’anima restò intrappolata
Nelle catene di vento e salsedine
In perpetuo movimento
E sempre immobile,
Come l’orizzonte che si staglia
Dalla Torre Spagnola
Fermo e dai colori vivissimi,
L’odore di mare
Che si confonde nel blu crespo
Delle onde notturne
Coi ricordi di ieri e d’oggi
E che ancora devono venire
Dei pescherecci senza tempo,
Che traghettano le loro storie
Per le vie di tufo
Fino a Villa Su Marchesu.
La prima volta che venni qui
Non andai più via,
Mi sentii più antico della Crobettana
e della Punta Maiorchina.
Pellegrino del tempo,
Fenicio.
La prima volta che venni qui
Non andai più via. Portoscuso.
Sottili confini
che non ci è permesso oltrepassare
pena devianze
accuse d’essere
al meglio pittoreschi.
Al peggio mostri.
Al peggio umani.
Non è questa l’interiorità?
L’intrinseca di sangue intrisa
battaglia,
fra il valicare frontiere
dello spirito
– e crescere –
o restare fermi,
tenaci nel superficiale,
monoliti insensati.
Nel mezzo,
in quella impercettibile linea
come quella che divide
il bagnasciuga dalla sabbia
abita l’habitat
di chi non si arrende,
all’immobilità.
Viva Erasmo
e che si fotta l’impero dei normodotati,
ipocrisia calcificata in scampoli ultimi di rara umanità.
“l’orgoglio non si fa
ma si guadagna, sensifica.
E non esiste modo
E non esiste mimica”.
Veduta di pioggia
rimane negli occhi
prigioni incantevoli
d’istante e per sempre,
veduta di luna
sferica pupilla
sorregge le palpebre
immobile,
veduta di Tempo – immoto edificio.
Veduta di te
nel Tempo fermata
memoria cristallo
mai più nell’oblio.
Avresti ridacchiato.
Del bollore sistematico
che ora infiamma i media
col tuo nome.
Lo sapevi bene,
meccanico di macchine pigre.
Avresti segnato
– strana parola –
il mondo di un’altra
brillante tua visione;
Il più nobile
fra i venditori di enciclopedie,
Il più signorile
fra gli affabulatori.
Ora,
nella più felice delle ipotesi,
mi piace saperti
passeggiare fra i tuoi boschi,
sghignazzando in barba (e che barba)
a quelle rose.
Che seguiteranno a vivere in nome tuo.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia
Ma oggi non sta più
per manifesta indigestione,
subita per l’infausta, succulenta libagione dei
troppi dannati trangugiati a colazione.
C’era Pino, avvocato e azzeccagarbugli
Del suo favellar facea intrugli ma
Minosse ne fece un frappé;
Ello avea difatti difeso
Un indifendibile uomo di peso
In cambio di ori, lustrini e lacchè.
Ma prima del dolce venne il lieto contorno
Ch’era un ometto schivo e disadorno
Gustoso che solo bastava per tre.
Il commercialista di nome Gerardo
Ometteva gli zeri con zelo codardo
In cambio champagne come ammazzacaffè.
Infine vi fu principale portata
Un tipo pacato d’indole disossata
Minòs lo inghiottì quasi senza un perché.
Lui fu dipendente di Pino e Gerardo
Ne assunse le colpe con troppo riguardo
In cambio di pane, famiglia e “vabbé”.
Così di Minossi noi siam circondati
Si ammassano in cerca dei più prelibati
Non ringhiano più poiché buttano giù,
Che tu sia dannato od “ahi te” vincolato
Minòs resta Cieco
Ringhiante
Affamato
Annaspo invano nella mia instabilità
È ormai
parte stabile di me
Pandemoniaco rifugio inframentale
Grazie porci dal volto umano,
esteti dell’odio
e custodi delle chiavi.
La verità sta in mano a chi la crea
E impasta lacrime e sangue
E ne fa dottrina manichea
E con potenti mezzi la diffonde.
Grazie monaci dell’apparenza,
teste aperte e ricucite
androidi intellettuali del diverso.
La saggezza è un prezzo alto da pagare
E le parole son macigni di vergogna
E tagli sulla pelle rovente
Ed oasi di concetti.
Infine grazie a voi atleti dell’oblio,
creatori di Felicitas
fautori e rabbia estatica del mistico.
L’orgoglio non si fa ma si guadagna
Sensifica.
E non esiste modo
E non esiste mimica.
Sei certa
Come il sole a mezzanotte
Come il sogno ad occhi aperti
Come il coma a mente lucida
Come la difesa a spada tratta
Sei certa
Sei purificazione
Sei anafora insistente
Sei l’unica della mia vita
Come il ragno a sette gambe
Come il cuore che non batte
Come il suono che si insedia
Come il tuono che lo invidia
Sei amore atipico
Sei odio asettico
Sei tristezza
Sei perfezione
Tutto muore e tu resti
Certa come sempre:
Incertezza.
Brivido fuori controllo
“Non guardare in basso”
Stomaco acido, satollo
Vermi nel materasso
Gli occhi si fanno lucidi
Il buio si fa pungente
Pulsioni e battiti vividi
È fuori controllo: la mente
Sudore sopra il cuscino
Le gocce ticchettano flebili
Controllo di sotto, mi chino
Piastrelle fredde ed immobili.
Magra è la delusione
Abbagli di un colpo di scena
Famelica è l’illusione
Di cui l’adrenalina brama.
Di spiriti o catene stridenti
Il sogno si fa fugace
Si spera che il fremito aumenti
Ma ogni castello è fallace
Non c’è via di scampo dal nulla
L’armadio non ha suggestioni
Il sonno mi prende e mi culla
Le cerco nel sonno, emozioni.
Un muro di sangue
Sull’aire dipinto
Mi sbarra i prosieguo
Copioso di ansie,
Sorride satanico.
Un passo e l’ignoto
Illusione o speranza
Un passo ed un bacio
Diletto o mestizia,
la scelta scarnifica.
Se dare al rimorso le chiavi del labile
Se cedere al fato fantasticherie
Se far del passaggio la via pei miraggi
Se darlo al destino il rammarico mio.
Oltrepasso.
Grondante di rosso.
Non guardo indietro,
Sodoma – Gomorra.
Davanti un muro di sangue.
O Aracnide dal fascino rognoso,
divoratore attento, non morboso,
perché fecondi me di trivial timore?
Sei il ragno psicopompo
Dell’immaginario popolare
Il ragno totemico
Del coyote compare
Il ragno metamorfico
Di Aracne e la sua tela
Il ragno fumettistico
Là nella Grande Mela
Da Nazca a Oriente viaggi
Con gran coordinazione
Neppur ne La Medusa
Manca un’apparizione
Dal grande al più piccino
Mi semini sgomento
Sei il trauma di un bambino
Dell’anima lamento.
Ti muovi con destrezza
Nidifichi le orecchie
Sei un sarto appassionato
Di liane, arazzi ed incubi.
Se fossi tale io
Sarei color di stagno
Ed al riflesso mio,
Svenuto: “Sono ragno!”
A volte è come sentirsi minotauro dentro.
Sguardo sul fantasma
dei Natali futuri
e dilapida il resto:
funereo dimorante
degli odierni clan
del tavolo da biliardo
lugubre affittuario
della tribù telefonica
delle parole a prezzo fisso
cupo astante
dei club culinari
e dei forni a microonde
triste tesserato
della lega immaginifica
della lotteria multimilionaria.
– Apnea –
Sasso buttato in acqua che affoga lento.
E il resto è solo televoto.
Connessione cerebrale, bisturi mentale,
attivazione.
“Benvenuti nella nuova colonia planetaria”.
Non c’è sesso, non c’è età, non c’è filtro,
c’è verità in pillole, sentimento in codice.
010010001110.
Detenzione fluida del liquido spinale.
Orgasmo autoerotico, scaricamento manuale.
Fluorescenza retropalpebra, odore particellare.
Piegamento del continuum spazio-tempo:
accelerazione.
Modulo antigravità innescato,
prepararsi al decollo!
3
2
1
…
Ora sogna. Apri gli occhi e goditi il tuo sogno.
Sei utente.
Sei mondo ad personam.
Non c’è limite, non c’è Hegel, non c’è Kant.
Decodifica del segnale neuronale.
Immissione adrenalinica. Endorfine impazzite!
Estrogeni, testosterone.
Le meningi scottano
Fumo.
Ultimi momenti.
Amplesso triviale. Ancestrale. Placentare.
Morte
…
…
SISTEMA IN CRASH. ERROR 404 – FILE NON TROVATO.
Insert COIN for another life.
Arrivederci e alla prossima vita. Teo S.p.A
Evviva, Mousse!, mia Lesbia, a me la Mousse!
Rum! ai re, alle chiese, ai severi Rum!
Oh, nessuno stima la Mousse così!
Sole! Occhi di re! E Edipo sono:
No bis! Con se, me. L’occhi di breve luce,
notte d’est, perpetua, luna dormente.
Dammi baci, Mille!, dall’indice tuo,
di mille a te o Ra, e secondi cento!
Degli’Indios che altera i mille, dell’India cento.
Oh, Dei, che miglia molte faceste. Mousse!
Conturbante Mousse! Lanesca Mousse !
Aiutane, chi mal usa invidia e riposo,
con tante sciate e sei baci al Rum!
CAMMINO STORTO
Metafore ortopediche.
Cammino storto
Fin da bambino
Cammino storto
Con le scarpe nuove
Cammino storto
Con le scarpe vecchie
Cammino storto
Scalzo, al freddo
Cammino storto
Senza cerotti
Cammino storto
Vino e formaggio
Cammino storto
Col pugno alzato
Cammino storto
In mano i miei sogni
Cammino storto
Fuori dal mondo.
Luci stroboscopiche, no viottoli, no droghe.
Promesse affisse facce sorridenti.
E vissero tutti felici e contenti.
Cammino per le strade di Berlino
Odierna succursale di Pechino
Testo cosmetici a passo veloce
Drin di telefono, alzo la voce
Drink energetico, sette e quaranta
Shopping magnetico, auto ai novanta.
This is the new world
Not very brave new world
But the only new world
Tentativi di log-in americanizzanti
Sintetizzati i nuovi cantanti.
Ipermercati e grasso di foca
Scarpe. Livin la vida loca!
Tendo la mano verso un fast food
Copro di trucco il mio look trendy e mood.
Filosofie da giardini e da gong
“Everybody just sing this song!”.
This is the new world
Not very brave new world
But the only new world
Cosmopolitan
Globalization
Multiconvention
Only a solution:
FUCK YOU!
Anni passati appeso alla sbarra.
A rivendicare diritti e battaglie.
Non sono una kefiah appesa al chiodo.
Sono un uomo appeso al sole.
Ad asciugar dai pori rabbia e parole
Steso trasudo acido e chetoni.
Sulle gambe i segni di lividi e carogne.
Sulle ciglia piste da sci innevate.
Bevo arsenico e orme di passanti.
Navigo fra brame e cartomanti.
Lotto sottoscacco contro i venti.
Sono un soffio decapitato dal tempo.
Amianto e particella di mercurio.
Creo dal vuoto ciò che hai intorno.
Io gigante, io pontormo.
Trama dello spazio e del film della vita.
Tumore o Miracolo.
Sono eremita.
ATOMO.
Le note del basso calde e profonde
come coperte la notte ghiacciata
Mi accarezzano l’anima
con guanti scamosciati color caffelatte.
Interviene delicato un riff di chitarra
elettrica, distorto e filosofo
Amabile come il buon vino della langhe,
cuce insieme muscoli e poesia.
A colpi di sudore magiche bacchette
percuotono il timpano e rullano
La cassa incassa ritmi africani e
scuote lo stomaco vibrissa di lince.
Sfrecciano aquile di dita sui gradini
bianchi e neri del pianoforte
Amalgama chimica di suono e
lucido di smalto lunare.
Testo e musica.
6 minuti di traccia.
E polso e pulsione.
Il prezzo da pagare è il pentimento?
Eutanasia morale e calice in basso,
L’ambrosia macchia il pavimento
Indelebile la colpa sotto il materasso.
Mi sento in mano al pater fallimento
In spalla punte fitte e giogo e masso.
L’abbandono:
lode al santo pel perdono.
fuga in botta sottotono.
Ricerca di pace, di realizzazione
Nell’arte, nel fuoco, nel suono.
L’abbandono.
L’abbandono è un dono
Difficile da scartare
Ruvido e splendente.
Re Mida nella carta moschicida.
L’abbandono è l’insulto
Della famiglia
L’istinto della scelta
Di voler felicità.
L’abbandono è l’occhio
Deluso su di te
Che ti taglia in quattro dubbi.
L’abbandono è
La via più difficile.
Imboccata nel modo più facile.
Via dall’università
In cerca di me.
Amen.
Nomen
Omen.
Abbandono.
Lo squallore è un fondale
Corallino in un mare
di merda e letame.
Dove trovano pace
la lisca più soave
e il rifiuto più lieve.
E stagna putrido l’ossimoro.
Verde bucolico è il vomito
Fra gioia e spazzatura.
Sguazzar fra abiezione e turpitudine
Non ha prezzo
Ma di una Master Card
Farei comunque vezzo.
Verde bucolico è il vomito
Sorrisi e siringhe.
Correr fra i campi nauseabondi
Aumenta la voglia
Di addentare l’erba
Poeta Goloso.
Verde bucolico è il vomito.
Giallo a grandi a pezzi
Sublime figlio della gastroenterite.
Verde bucolico è il vomito.
E io vomito per strada.