Diari di una ninfomane perbene

Joe non sente niente. Così ci si era lasciati al calare di Nymphomaniac I e così si ricomincia all’inizio di Nymphomaniac II. L’atarassia genitale della ninfomane infatti mina il suo rapporto con l’amato (?) Jerôme e porta con sé uno strascico di comune insoddisfazione che sarà la scintilla per una nuova parabola sessuale qui più che nel primo volume miscelata con mistiche equivoche e ambigue ibridazioni morali. La giovane donna invero all’inizio della sua prima digressione con il paziente Seligman scava nel suo passato per ritrovare le radici della sua condizione e rivive la trascendentale levitazione, con tanto di appararizioni al seguito, che in tenera età le donò il suo primo orgasmo. La genesi protoreligiosa della ninfomania di Joe si palesa agli occhi di uno spettatore che ne fa tassello prezioso dell’intricato puzzle vontrieriano, e così la narrazione – fatto l’excursus – può riprendere il suo normale cursus cronologico.

Quel che avviene si può sostanzialmente definire come la disgregazione programmatica (e fisica, e psichica) di Joe la quale come tutti, sottoposta all’inesorabile invecchiamento (reso filmicamente con il cambio di attrice), cerca di riemulare le imprese del passato senza però ottenere i medesimi risultati. Jerôme dal canto suo non può che accettare la vera essenza della compagna e, pur se a malincuore, tenta invano di aiutarla nella sua ricerca di piacere svincolandola dalla monogamia e ri-aprendo i rubinetti della frenetica ricerca di sempre diversi partner sessuali. Come insegna Fromm però, Avere e Essere sono due cose diverse e difatti Joe, pur nella sue ritrovate libertà, non si ritrova. Ecco dunque che in pieno parallelismo con la metafora del drogato (d’altronde è lei stessa a frequentare un corso di disintossicazione per sex-addict) comincia l’epopea ninfomane verso esperienze sempre più forti e [socialmente considerate] liminali, come a dire che “fornico ergo sum”. Si passa così dalla ricerca dell’esotico (la sequenza dell’iniziato rapporto con i due africani) a quella del masochistico, et cetera et cetera et cetera. Ora, senza indugiare ulteriormente sulla trama, il lettore/spettatore meno qualunquista non sarà certamente sorpreso o sbigottito dal leggere queste righe, in effetti Joe decide per se stessa e così faceva nel primo volume, e rivendica il suo status di persona libera. Nondimeno se già in Nymphomaniac I il gioco dell’ambiguità morale della ninfomane mostrava alcune discrasie interne (se nessuno può giudicare una ninfomane, forse qualcuno inizia ad avere da ridire quando questa distrugge famiglie mentendo metodicamente ai suoi partner) in Nymphomaniac II il tema viene sezionato trasveralmente. Ora infatti Joe non è più sola, e se Jerôme è un suo coetaneo con il quale è possibile negoziare l’andamento della loro relazione giorno per giorno, diversa è la situazione che instaura con il figlio neonato. Questi, venuto al mondo per errore e palesatosi al primo sguardo della madre con una sorta di satanico sorriso (riecheggia nell’aire l’incredibile Rosemary’s Baby di Polanski, 1968), per il solo atto di nascere implica delle responsabilità dei genitori che Joe proprio non riesce ad accettare. A tal punto da metterne a rischio l’incolumità abbandonandolo ripetutamente di notte (e i moralisti che leggono sono avvertiti: non è importante il motivo per cui lo abbandona, è importante il fatto che lo abbandoni).

Insomma la questione morale si inspessisce ed amalgama con quella politica giacché la protagonista, resasi infine conto della sua unicità ed incapace di accettare ulteriormente lo stigma affibbiatogli dalla società, decide di riconfigurare l’architettura della sua esistenza abbracciando la criminalità organizzata e trovando posto sociologicamente adeguato nel dominio dei considerati devianti. Accettazione del sé e accettazione dell’altro si fondono e Joe si erge a emblema di un diverso sempre strattonato fra l’esserci e il non esserci in un mondo spietato dove non c’è spazio per chi non si omologhi. La libertà sessuale diviene così stendardo politico di espressione di un malessere interiore e Joe, donna dalle molteplici ermeneutiche, si presta ad una lettura parafemminista riconfermata dall’interpretazione, francamente posticcia, del suo interlocutore Seligman nel finale.

Da un punto di vista formale le considerazioni mosse per il primo volume sono qui confermate ed anzi avvalorate; la sospensione dell’incredulità è costantemente messa alla prova nel film poiché la contrattazione del senso è all’ordine del giorno e sempre più evidente, fino al finale di cui fra breve. Joe e Seligman scrivono e re-interpretano costantamente Nymphomaniac, si divertono a trasfigurarsi come proiezioni dello spettatore in un esercizio metacinematografico perseverante che tocca uno dei suoi culmini nell’ultimo capitolo, The Gun, così intitolato dopo una ricerca lessicologica (ma sopratttutto metaforologica) comune dei due interlocutori.

Il summenzionato finale infine si erge ad apoteosi del sostrato meta- su cui si è imperniato l’intero film (I+II) culminando in un dominio che è innanzitutto metafisico. Joe infatti [ALERT SPOILER!] si ritrova nell’improbabile condizione di sapere che le uniche persone da lei mai amate (?), Jerôme e P (figlioccia malavitosa con cui la protagonista ha intrattenuto rapporti lesbici), le hanno entrambe voltato le spalle instaurando una relazione assieme. Il tutto vive il suo apice in quel non-luogo dove vedemmo Joe all’inizio del film, interessante fusione di squallore e poeticità ove la distrutta ninfomane, dopo aver tentato di uccidere gli oggetti della sua ultima ossessione, vive una sorta di dantesco contrappasso essendo prima violentemente picchiata dal suo ex-amato e in seguito costretta a visionare i due intrattenere un rapporto sessuale su di un cassonetto con tanto di scritte in sovrimpressione a rimembrare la di lei prima volta con lo stesso Jerôme. Metafisico il dominio si diceva, poiché se per tutto il film lo spettatore ha accettato un universo diegetico che continuamente ostentava il suo essere volatile, è infine onestamente improbabile credere per veritiera una siffatta configurazione di probabilità e circostanze.

È vieppiù, a concludere, metafisico e squisitamente controtendenza (ma nel contempo tendenzialmente vontrieriano) il vero finale, quello in cui i due interlocutori, la ninfomane e l’asessuale, si riconoscono come estremi speculari di una stessa condizione di solitudine per abbandonarsi ad uno smielato lieto fine dove tutto sembra andare per il meglio, salvo poi vedere rientrare in scena il buon Seligman seminudo e pronto ad approfittarsi della fragile Joe, e capire in conclusione che era tutta una stronzata.