Antongiulio Panizzi (2016).

La sfida di Alan Friedman (tipicamente paracula) è quella di scrivere la biografia definitiva di Silvio Berlusconi. L’operazione, quantomeno per come la traduce il film di Panizzi dal libro del giornalista statunitense, risulta fallimentare in partenza: troppe intersezioni. Un coacervo di persone, fatti (molti dei quali destinati a rimanere nel torbido), e flussi comunicativi e di denaro come quello rappresentato dall’ex Premier sfugge a ogni tentativo di messa in ordine, va preso per quello che è, un gigantesco e inestricabile casino. Ciò che però colpisce dell’ennesimo film su Berlusconi (ricordate Deaglio? ricordate Carboni?) è il contenuto latente, quello che mostra la faustiana essenza di un uomo condannato per i suoi patti con più diavoli (diavoli veri, quelli della corruzione, della mafia, e tanti altri che non vale la pena qui riassumere), ormai marcato per l’eternità.

Berlusconi è in palese imbarazzo quando Friedman trascende le sue vette per vagliarne le oscurità, e lo è perché sa che il desiderio rovente di essere ricordato come un Grande (imprenditore, statista, trombeur de femmes) dovrà in eterno scontrarsi con le maledizioni che gli hanno consentito di diventare quello che è. Così emerge, dopo la rabbia degli anni novanta e duemila, un sentimento inedito verso il vecchio la cui vecchiaia è sempre più malcelata: inquadrature a tradimento ne rivelano il ventre gonfio, gli occhi gli si fanno sempre più invisibili, la persona stessa, nella libertà dell’immensa villa, è prigioniera di stuoli di collaboratori e leccaculo pronti a ridere delle sue battute non divertenti, stuprandone la dignità. Sarà quindi così vero che il berlusconismo è radicato nella nostra società, nella nostra cultura, nella nostra anima, quando, nonostante tutto, di fronte al suo decadimento anagrafico e politico riusciamo ancora a provare dell’umana pietas, specie quando scopriamo che, poverino, era davvero convinto che le interviste di Friedman avessero l’unico scopo di celebrarlo?