Gabriele Mainetti (2016).

“Lo chiamavano Jeeg Robot” ha sicuramente molti pregi, e forse in primis quello stesso di esistere (non è certo il solo, in un mercato di idee che sembra pian piano rialzarsi nel cinema italiano). Il film coniuga felicemente il filone – sempre più genere a sé – della Roma suburbana con l’estetica (e anche, purtroppo, la retorica) supereroistica. Santamaria, discretamente nella parte, si fa (anti)eroe grazie a un curioso incidente con dei misteriosi bidoni in fondo al Tevere, primi elementi di un sottotesto politico graffiante se non addirittura caustico, e si toglie com’è giusto qualche sfizio. Serviranno un amore disfunzionale (con una indecifrabile Ilenia Pastorelli) e un carismatico supercattivo jokeriano (uno straordinario Luca Marinelli) a riportare il Nostro nei binari del cliché supereroistico classico, in un exploit finale capace di destituire tutto il lavoro fatto dal film in precedenza per smarcarsi da certi luoghi comuni. Inevitabile? Non credo. Ma comunque non è poi peccato così mortale cercare di dare al pubblico anche quello che il suo alfabeto vuole, a dosi sempre più ridotte, beninteso.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” resta un film gradevolissimo, a tratti commovente e con soluzioni visive più che riuscite (l’abbraccio innamorato sullo sfondo proiettato con l’anime giapponese), a tratti con derive à la Rai Uno (l’abbraccio con la donna scampata con la figlia all’incidente in macchina) che sembrano quasi sopportabili data l’economia generale del film. E Jeeg Robot? Jeeg Robot è l’immaginario sfocato di un luogo senza più fantasia, senza più, appunto, immaginazione…rifugio favolistico e colorato capace di fornire spiegazioni convincenti a una realtà privata di futuro.