Robert Nord inventa quel che ognuno, almeno una volta nella vita, vorrebbe scoprire: una bacchetta magica (o almeno un suo equivalente in salsa postmoderna: un telecomando magico. E se pensate a Cambia la tua vita con un click, sì, ma più serio). Grazie ad una particolare bassa frequenza egli scopre di poter mandare in trance e assoggettare alla propria volontà chiunque gli capiti a tiro d’orecchio. Mai serendipity fu più propizia invero, giacché il protagonista di LFO (sigla di Low Frequency Oscillator), interpretato da un magistrale Patrik Karlson, nasconde un recente e divorante passato da uxoricida-parricida, e quindi non può che cogliere al balzo la possibilità di cambiare radicalmente e velocemente la sua vita triste e solitaria. La sua vicenda si intreccia poi con quella dei nuovi vicini di casa i quali ben presto finiscono invischiati in un’esistenza completamente ipnotizzata/schiavizzata da un Robert che anziché trovare la retta via degenera in una spirale distruttiva – più per colmare un vuoto che per edonismo – che a tratti (per diletto degli spettatori) unisce il cinico al tragicomico.

Ottima prova di regia per Antonio Tublén che costruisce un film (pre)potentemente sonoro (come poteva essere da meno?) e ottimamente giocato su fuori campi visivi e uditivi e dissolvenze a funzione d’anticipazione che caricano di senso l’ambiente unico nel quale si svolge l’intera vicenda: la casa di Peter. Questa diventa il centro di un universo dominato da un rumore continuo, che accompagna più o meno fortemente l’intera pellicola, e che in alcune microsequenze contagia la videocamera producendo movimenti convulsi e frenetici, come a sfogarsi di fronte all’impossibilità di fermare Peter dai suoi propositi. Ciò detto si aprono le numerose letture psicoanalitiche di un film il quale, innervandosi in un’atmosfera sci-fi atipicamente casalinga, di fatto assume una dimensione mentale e gioca pesantemente sui temi della perdita e della rimozione.

Una sorta di apatia cosmica, ingenerante una vera e propria atarassia semi-patologica, pervade la vita di un protagonista ben caratterizzato che sperimenta per la prima volta un potere immenso. Un potere che, come a ricoprire il ruolo di un antieroe che man mano scopre se stesso, impara a gestire non senza alcuni momenti di oculata suspense. Se lo dòmini o ne sia dominato resta felicemente un quesito senza risposta. A sancire questa sensazione d’oppressione contribuisce inoltre la cura di una scenografia scelta appositamente per le sue valenze claustrofobiche; la cantina in primis, ma similmente gli spazi interni della casa di Peter sono sempre angusti, ridotti a sorte di cubicoli repressivi, ed è proprio fra queste mura infatti che si manifesterà la fuoriuscita maniacale del protagonista.

Il dubbio però durante la visione assale lo spettatore: come concludere in maniera degna un film del genere? L’impresa è ardua, ma Tublén adempie al compito. Né liete fini né edulcorazioni di sorta. LFO prende la piega inaspettata che meglio gli calza e con sarcasmo e pessimismo, oltre a inquietanti possibilità di rapporto con avvenimenti quasi contemporanei (è un film scandinavo), fornisce una chiusura dal taglio filosofico formidabile poiché spiazzante. Apocalittico. Spietato.