Jupiter – l’estetica del ridicolo vista dai Wachowski

I The Wachowskis (prima Wachowski Brothers, poi Andy e Lana Wachowski) hanno certi pallini, e ormai sono più che evidenti. Sin dal primo Matrix, film-esperienza incredibile che li ha consacrati per sempre (ma anche eclissati, dalle stesse spalle della loro creatura a detta di molti mai più eguagliata), hanno costruito il proprio manifesto estetico a suon di ideali di libertà nel senso più alto e metafisico del termine. Il cinema dei Wachowski(s) è infatti un cinema di martiri, eroi futuristici che si sacrificano per un bene più grande. Neo, che pure schivava le pallottole, ci lasciava le penne e il giubbotto di pelle – nei due sequel da tutti bistrattati, eppur considerati da chi vi scrive stimolanti e incompresi – per sconfiggere “le macchine”, emblematiche di somma tecnocrazia e totalitarismo dei totalitarismi. L’ormai mitologico V, la cui maschera è oggi un totem celeberrimo e inflazionato, si immolava in onore del suo ideale in un tripudio di Beethoven e pirotecnia, e verbale e pirica. Cloud Atlas poi, mosaico narrativo di raffinata armonia, affidava nuovamente il destino della libertà all’artificiale Somni~451, schiava risiedente a Neo Seoul (anno 2144) e iniziatrice di un avamposto di resistenza dei cloni contro l’ipersfruttamento dei capitalistici tiranni. Speed Racer non l’ho visto.

E oggi c’è Jupiter, l’ultimo anello della catena uscito in sordina (d’altronde, nel weekend di San Valentino e della tattica uscita di 50 sfumature di grigio), che nel quadro sopra tratteggiato fa fatica a trovare un posto che spicchi per autonomia. Già: se Jupiter poteva aggiungere qualche cosa ai topoi wachowskiani quel qualcosa pare mancare quasi del tutto. C’è il background fantasioso-fantascientifico-fantastico (ovviamente fantapolitico) che già conosciamo a menadito; c’è il tema simbolico della coltivazione degli umani come fossero vegetali, atti a produrre energia revitalizzante per i ricchi transgalattici (Le pile di Matrix? Le “ascensioni” di Cloud Atlas?); c’è la distopia dei potenti contro i deboli. C’è lo spazio siderale, più che negli altri film. Sembra insomma un intricato (non poi così tanto) filo la cui matassa è già stata dipanata in altre occasioni dai registi.

C’è però anche qualcosa di diverso, sotto gli strati di inevitabile “già visto”, che vale la pena di menzionare. Se proprio infatti si vuole analizzare il film dei Wachowski(s) bisognerebbe farlo a partire dal suo sarcasmo di fondo, dalla sua voluta noncuranza, dal suo debordante nichilismo. Forse è questa la novità assoluta: se anche nei film precedenti i visionari registi facevano riferimento agli stessi temi, lì erano assolutamente seri (eccezion fatta per l’esilarante episodio del vecchietto in Cloud Atlas). Matrix è un film dove non scappa un sorriso nemmeno a tirarlo con le pinze, V è un personaggio che fa simpatia, ma non è simpatico per niente. In Jupiter al contrario gli elementi ironici e meta-wachowskiani (sono loro che parlano di loro stessi) ricorrono quasi isotopicamente: la bella protagonista Jupiter Jones (Mila Kunis) è mordace, quasi mai seriosa, e ancor prima dei titoli di testa il montaggio gioca a mostrarla intenta a lavare gabinetti – con toni da commediola leggera – intervallando con immagini grandiose dello splendido piante Giove. L’aitante ibrido Ca(i)ne (Channing Tatum) le dice di condividere più cose con un cane che con un umano, e lei risponde di “aver sempre amato i cani”. La fantascienza classica questo semplicemente non lo permette.

Si tratta inoltre di un film che fa l’occhiolino allo spettatore più accorto, rimestando a piene mani nell’epos postmoderno e fornendo spiegazioni variegate alle grandi domande legate all’immaginario extraterrestre contemporaneo. I cerchi nel grano altro non sarebbero che il risultato delle propulsioni dei motori di astronavi aliene che si allontanano, gli omini grigi così come tutti se li figurano esistono eccome, ma sono perlopiù schiavetti spaziali assoldati da individui molto più simili agli umani. I rettiliani in questa gerarchia sono poco più che soldati. Le abduzioni sono all’ordine del giorno, e chi riferisce circa possibili incontri ravvicinati non è svitato, anzi è uno dei pochi a cui il trattamento di cancellazione della memoria di massa da parte degli alieni non ha funzionato. Tutte queste cosucce, molto curate, fan sorridere, e accettare buchi – decisamente poco wachowskiani – del film che altrimenti sarebbe totalmente da demolire (tutti nello spazio parlano un perfetto inglese). La pretesa del testo d’altronde, si direbbe in semiotica, non è quella di essere preso tanto sul serio. E quindi perché farlo? Non si spiegherebbero altrimenti le numerose derive grottesche di un’opera che mette ai piedi del suo protagonista improbabili pattini volanti, e che confonde l’epica con i toni da bisticcio famigliare modello telenova argentina. Estetica della libertà si diceva, che in Jupiter si rimodula nei termini metadiscorsistici di una consapevole estetica del ridicolo (eppure che bei colori questa Giove).