40 anni di Fantozzi, e l’ombra della Corazzata

Dire che sembra ieri sarebbe una bugia. Perché non sembra ieri quando c’era Fantozzi. I tempi son cambiati, e a guardarlo si capisce bene. E i cineforum, quelli dove ci si interrogava sulla Corazzata Potëmkin ridendo di sottecchi (Ėjzenštejn tanto se la ride il doppio)per la fantozziana chiosa, che fine hanno fatto? Gli universi impiegatizi, dove pur se prostrato alle angherie del megadirettore galattico avevi un posto fisso, ove si trovano? Le vacanze a Courmayeur, ah bei tempi, ma chi – oltre ai cumenda de noantri – può permettersele a modo?

Fantozzi insomma compie 40 anni e li dimostra. Eppure, a scanso di equivoci, è senza tempo. Già, perché è entrato nel lessico nostrano a suon di congiuntivi sgrammaticati e prone prosodie, e perché bene o male si è erto a modello degli sfigati di tutta Italia. Fantozzi è il meta-sfigato, lo sfigato degli sfigati, cristallizzato in una penisola che a vederla oggi non era poi così male, perché i problemi evolvono e la situazione sociale si è inevitabilmente deteriorata. Eppure ancora lo iellato ragioniere dalle inguardabili bretelle assolve al suo compito: catalizzare i mali dell’esistenza onde farci sentire di esser tutti, almeno un pochino, più fortunati di lui.

Il fulcro del suo successo, oggi consacrato a genio indiscutibile, fu la capacità di creare convergenza fra spiccata comicità satirica, pungente e spietata, e dinamiche della gag fisica, quella da slapstick comedy in stile cartoonesco (da Buster Keaton a Charlie Chaplin, da Tom & Jerry a Daffy Duck), gioiosamente infantile. Fantozzi riusciva (e riesce) a vendicare quelli che “non erano riusciti nella vita” mostrando come la mediocrità non fosse loro, ma dei loro capi, e nel contempo suscitava (e suscita) sganasciate risa cortocircuitando il discorso con una racchettata dritta sulla fronte.

La rivincita della medianità dei molti contro la mediocrità dei pochi despoti ha fatto di Fantozzi il simbolo di un’era che oggi è opacizzata dalle sue propaggini postmoderne. Ma, va detto, egli il suo sacrosanto posto se l’è guadagnato, fra Totò, Macario, e forse Woody Allen, e di sicuro i Monty Python. I Monty Python??! Già, poiché l’assurdità dell’epopea fantozziana, la struttura episodica dei suoi film retta da un continuum più burlesco che diegetico, la profondità della sua opera interpretabile con chiavi diverse, ricorda tanto l’astrusità del gruppo britannico, che proprio nel periodo di uscita di Fantozzi [1975] portava sugli schermi Monty Python e il Sacro Graal.

Per ridere oggi, più che ieri, l’eterno incompreso Fantozzi va capito. La sua nuvoletta da impiegato è sbiadita, invecchiata come l’effetto speciale che la produsse. Riverbera un passato prossimo che si profila sempre più remoto, negli anni in cui l’onere della risata è affidato a The Big Bang Theory e Ti presento i miei (Jay Roach, 2000), a Jack Black e al cabaret televisivo, a Una notte da leoni (Todd Phillips 2009), uno dei film più esilaranti che chi vi scrive abbia mai visto.

Fantozzi comunque resta lì, non proprio nel Paradiso dell’umorismo perché i posti erano finiti (cit. Fantozzi – Il ritorno 1996), ma un po’ più in basso. Posizione disgraziata, ma come poteva essere altrimenti? Per antonomasia egli non può vincere e sarà sempre posto un gradino sotto gli altri, ma continuerà a sfregarsi mani e lingua, perché senza passare da lui non si potrà arrivare in cima alla scala. E comunque vale la pena fermarsi, una partita a biliardo e una spaghettata coi fiocchi non la si nega a nessuno.