Se già è impresa ardua individuare (o tracciare) l’ermeneutica di un film dichiaratamente di finzione, quando l’opera è documentaria questo compito si complica esponenzialmente. Si è tesi a metà fra una presupposta aura di veridicità e l’inevitabile consapevolezza che il film documentario non è mai fotografia autentica del reale ma sempre testo mediato, in bilico fra una più o meno massiva manipolazione. Il documentario è insomma, in qualche misura, anche sempre mockumentario (cfr. Formenti Cristina, Il mockumentary: la fiction si maschera da documentario, 2013), tuttavia la divaricazione fra ipermediazione e immediatezza (Bolter e Grusin 2000) è a sua volta negoziata a partire dall’onestà intellettuale dei creatori del film.

Il film, come ogni testo, muove da alcune pretese, ha in sé una dichiarazione di intenti intrinseca o estrinsecata a seconda delle dinamiche enunciative adottate dal regista e, prima, in fase di scrittura. Ecco perché, fin dal titolo, la Cronaca di una vita semplice (Febbraio 2014, presentato al Festival Cinemambiente di Torino) di Fabio Gianotti e Silvia Bongiovanni si configura come un film speciale e coraggioso. A pensarci bene è infatti il sottile confine semiotico fra “storia” e “cronaca” a sostanziare le vicende rappresentate dai due registi. Gli stralci della genuina vita di Gianfranco Brunetto, operaio e contadino della frazione di Bardenghi, annessa a Valloriate nel cuneese, sono sempre resi tramite un’operazione di debrayage stilisticamente cronachistico. Le immagini e lo stream of consciousness di Brunetto sono e devono essere in costante rilievo e la macchina da presa ritorna quindi ad una sua presunta predisposizione primigenia: quella di testimone in epoché (sospensione del giudizio). E così l’unico protagonista del film racconta all’occhio (quasi) invisibile del medium la sua personale storia e il medium la rende tramite il macro-genere della cronaca sforzandosi di non corrompere i luoghi illibati che visita e fissa inquadratura su inquadratura.

In 50′ minuti si condensano tematiche pregne di una straordinaria universalità e le mani di Gianotti/Bongiovanni le esplorano una ad una con lucidità e freschezza (così come fecero con l’originale, e a tratti herzoghianamente ipnagogico, I ribelli del Tajarè). Banale e semplicistico sarebbe evidenziare la centralità del topic naturalistico giacché questo è solo il trampolino di lancio per riflessioni ben più profonde, che scavano con ardimento nelle assiologie più assodate del senso comune. Natura e cultura ad esempio, usualmente concepite come infrangibile dicotomia esistenziale, vengono messe rimesse in discussione come categoria sociologica ed estetica; Cronaca di una vita semplice infatti sembra asserire come l’una non neghi l’altra ed anzi ripropone una visione sincretica, che ne rivendichi una logica complementarietà. Brunetto infatti sceglie sì, la vita più agreste, ma nel contempo dichiara senza problemi di godere sporadicamente dei mezzi della modernità (automobile, televisione, telefono,…). Il film non sottopone chi guarda ad uno scontato esercizio di laudatio temporis acti ma postula una commistione tipicamente figlia della postmodernità (o del buonsenso): l’abbraccio condiviso ad una ponderata memoria, e pratica e teoretica, coadiuvato dagli strumenti del presente, aiuti funzionali e misure ontologiche dell’esserci nel mondo.

Un così ricco sostrato concettuale, nascosto fra le pieghe di un documentario di vita rurale, ritrova sostegno nella messa a fuoco del tema del lavoro, problematizzato in termini dualistici. Da un lato si ritrova il lavoro necessario al sostentamento in una società stratificata e industrializzata. La vita in fabbrica di Brunetto è ripresa con minuziosa perizia e l’indugiare della macchina da presa fa riecheggiare nell’etere i demoni fordisti della marxiana alienazione; compiti sempre gli uni uguali agli altri, monotonia e meccanizzazione totalizzanti, rumori assordanti e imperituri a segnare i timpani della diegesi e dello spettatore. Di contro vi è il lavoro in una sua accezione più umana, che proverbialmente “nobilita l’uomo” dal momento che lo ripaga materialmente e spiritualmente senza intercessione di denaro o qualsivoglia altra forma di sanzione sociale. Esemplificativa la sequenza della faticosa procedura di panificazione mostrata nel film, così meravigliosamente “all’antica”, che svolge una duplice funzione: da un lato didattico-enciclopedica, poiché fissa ad libitum usi e pratiche destinate altrimenti a scomparire del tutto dall’inconscio collettivo, dall’altro estetica perché emblematica di una visione del lavoro quasi del tutto caduta in disuso nella frenesia di una società moderna segnata dal mito dello scorrere del tempo.

Ma l’architettura narrativo-retorica di Cronaca di una vita semplice non si ferma qui e infatti il film, sempre coerentemente, accende ulteriori tematiche problematizzandole di continuo. La vita di Brunetto riporta alla mente le avventure di Thoreau descritte nel suo Walden, o quelle de Nelle terre estreme di Krakauer (da cui l’Into the Wild di Sean Penn, 2007), ma anche why not il Pianeta azzurro di Piavoli (1982), ed è resa – a scanso di accuse d’eccessiva manipolazione – senza esercizi di censura anche nei momenti più naturalmente cruenti. Politicamente esemplari in questo senso le sequenze dell’uccisione di un coniglio e un gallo rappresentate nella loro intera crudezza tranne che nell’atto (eliminato tramite jump cuts di memoria godardiana, vontrieriana, alleniana, e numerosi altri) del passaggio dalla vita alla morte. Si asserisce qui che tale scelta non è da considerarsi come atto di censura ma, ben diverso, di cesura, effettuato con maestria dai due registi per ragioni molteplici che incontrano il favore di chi vi sta recensendo l’opera, fra le quali in primis spicca la scelta di non ricadere nei cliché tipici di certe forme di documentarismo “shock”, validi forse per chi si occupa di temi laterali (animalismo et similia) rispetto a quelli trattati dai registi piemontesi (per chi fosse interessato a opere di quest’ultimo genere si consiglia, fra i tanti, Food, Inc. del 2008 di Robert Kenner).

A contorno l’intero discorso su quella montagna affascinante, incantata (à la Thomas Mann) e abbandonata che si lascia assaporare nelle sue memori miserie fin dalle prime inquadrature, così straordinariamente vicine ai racconti del valloriano Giovanni Monaco in L’era pé jo ben bel issì (2012, edito dal figlio Lucio Monaco). Questa ritorna costantemente in quanto habitus della volontaria solitudine di Brunetto, eremita (così lo chiamano) mosso da precise motivazioni ideali. La natura, racchiusa in quel luogo mentale che è la montagna, non è più come in un passato imprecisato condizione obbligatoria con la quale fare i conti, ma scelta di accettazione del sé, istanza vivificatrice e collaborativa. L’abbandono alla quale è sottoposta, l’angheria quotidiana che subisce dalle industrie interessate meramente al profitto, ritornano costantemente nella Cronaca della vita di Gianfranco Brunetto il quale con il suo quieto vivere continua in una muta lotta tesa a non far scomparire il ricordo, entità di cui il presente è responsabile.

A corollario di un film di così magnifica complessità (nascosta nel velo di un’apparente semplicità, così come semplice è la vita del protagonista) si cita infine la sua delicata poetica interna poiché se vero è ciò che si asseriva inizialmente, ovvero che Cronaca di una vita semplice è un film asintoticamente teso all’annullamento della mediazione stilistica, in favore di una quanto più affidabile veridicità del rappresentato, altrettanto vero è che di per se stesso il film è costruito a partire da scelte estetiche, e che queste, lo si faccia dire, rasentano spesso il sublime. La già citata sequenza di incipit, a mostrare la polimerizzazione totale fra rovine e natura, ne è esempio lampante, ma ancor di più lo sono alcune scelte successive particolarmente raffinate. La sequenza dell’uccisione del coniglio ad esempio mostra un’inquadratura figurativamente eccelsa, divisa verticalmente dal coniglio esangue e da Brunetto che continua nel suo monologo, e che viene ripresa da correlati discorsi su vita e morte dello stesso Brunetto in seguito. O ancora alcuni montaggi analogici, figli della lezione eisensteniana, che palesano la doppia visione del lavoro di cui sopra (per intenderci: alla stregua dell’hitchcockiano occhio di Marion in Psyco che si fonde con lo scarico della doccia). O ancora l’enigmatico finale in cui Brunetto, dopo una sessione di raccolta delle castagne, tenta di accendere un fuoco senza riuscirvi ma si gode comunque l’imponente fumo che esce dal cumulo di sterpaglie adibito a falò, accerchiato dai suoi cani e semivisibile per via di un’inquadratura che, spontaneamente (?), risulta tagliata diagonalmente a metà.

Cronaca di una vita semplice di Gianotti e Bongiovanni è, in conclusione, la riprova della potenza e della versatilità del mezzo cinematografico il quale in mano a giovani a creativi, non necessariamente ingeriti dal vorace vortice del mainstream e delle grandi distribuzioni, riesce a dipingere pezzi di senso altrimenti destinati ad un’amara sorte: prima semplici vite, poi semplici ricordi, infine semplicemente nulla.