E se la solida immanenza del programmatore informatico venisse a scontrarsi con l’eterea trascendenza del moderno  fricchettone? Quale strana visionaria configurazione del reale potrebbe nascere? Andrew Bujalski prova, e ci riesce (?), a rispondere a queste domande generando un film sperimentale d’alto calibro: Computer Chess.

Un indefinito albergo funge da catalizzatore d’esperienze mistiche, quasi a ricordare il celeberrimo Shining (ma anche 1408 di Håfström, o in un certo senso il Lost in Translation della Coppola o il più recente The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson), quando si trova ad ospitare nello stesso weekend un torneo di scacchi virtuali che vede software vs software (ove quest’ultimi fungono da interfacce, estensioni alla McLuhan, dei loro programmatori), e un gruppo dalle tendenze new age che pratica rituali ancestrali quali il parto collettivo e la penetrazione del pancarré. I due strambi conglomerati umani sono inoltre ulteriormente suddivisi al loro interno in altrettante disparate personalità, tutte mirabilmente leggibili come allegorie stratificate, che sperimentano molteplici e beckettiane situazioni. Le strade che si aprono nell’ora e mezza di Computer Chess sono troppe: dalla (semi)fantascientifica intelligenza artificiale lontana anni luce da quella di spielbergiana memoria (A.I. – Intelligenza Artificiale 2001), e culminante in un allucinato dialogo fra programmatore e computer che prima di spegnersi mostra sul monitor una misteriosa ecografia fetale in risposta alla domanda “Who are you?”, ai viaggi alla scoperta di sé – del sé – di Michael Papageorge (Myles Paige), personaggio vagabondo all’interno dell’albergo che si trova ad affrontare fra le altre cose un crescendo di gatti allergenici.

La confusione di un’esistenza imbrigliata nei fili della mente umana è inserita in Computer Chess negli anni ’80 americani, quelli dell’ostile “chi va là” nei confronti dei sovietici, fatti di corse allo spazio ma soprattutto anche di continua lotta per il progresso tecnologico. E come le vicende rappresentate ricalcano questo disordine, prima di tutto metafisico, così anche le tecniche di regia e di fotografia tutt’altro che banalmente scelgono l’impervia via di un bianco e nero collocato in un frame di 3/4 ad imitare le vecchie cineprese semi-professionali che faticavano nella messa a fuoco. Eppure la finzione è dietro l’angolo ridacchiante, come uno sguardo superdeterministico, e infatti il colore compare in una breve sequenza proprio quando lo spettatore si è ormai abituato (in un esercizio di significativa accettazione) alle sfocature del domestico b/n.

Dietro i nerd (sociolinguisticamente più corretto in questo contesto è il termine geek) di Computer Chess vi è un lavoro di ordine filosofico ed artistico davvero pregiato che fa fatica ad ingranare la marcia nei primi minuti ma che lascia davvero soddisfatti in seguito, proponendo una serie di riflessioni al di fuori di ogni schema canonico ed estetico socialmente accettato, decostruendo i cardini della logica comune in un climax ascendente che ne segna la deriva ermeneutica oltre i confini dei puri meccanismi di causalità. Inevitabili certe considerazioni teoretiche dopo la visione di un film del genere, tecnicamente ineccepibile e contenutisticamente vaso di Pandora in continua eruzione.

Il finale, qui non spoilerato, conferma il crescendo di estasiante paradosso e genera un sorriso pensoso in chi guarda, costringendolo almeno per un attimo a ripensare alle logicità che sorreggono la sua vita. Vietato alzarsi prima della fine dei titoli di coda, ciliegia più unica che rara su un film più unico che raro.