E venne il cinema a liberarci dal lavoro

Di film in tema lavorativo ce n’è una marea. Uno su tutti, vi basti ricordare il capo-lavoro (lavoro per l’appunto) di Chaplin, Tempi moderni (Modern Times, 1936), irriverente accusa al fordismo statunitense e non solo che trasformava (e trasforma) gli uomini in macchine. Ma anche in Italia abbiamo grandi nomi e pellicole a rappresentare la questione, dal bacino neorealistico che proprio del lavoro faceva uno dei suoi grandi nodi: come non ricordare La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971), o I compagni (Mario Monicelli, 1963), e ancora Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti, 1960) o Il ferroviere (Pietro Germi, 1956), ma soprattutto un film neoralista purosangue: Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1946). Forse il più attuale di tutti quest’ultimo, perché vedeva arrabattarsi uno qualunque che, ancor prima di essere operaio, era disoccupato costretto a girovagare senza meta per una Roma non proprio da “grande bellezza”, fatta d’amara accettazione, di furtarelli della Domenica per garantirsi un minimo di futuro, e soprattutto di umiliazione pubblica di fronte al proprio inerme figlio.

E ancora la fantozziana saga, che alla fin fine ci faceva ridere ma anche satireggiava ferocemente un sistema classista fatto di ragionieri merdacce e cumenda cui tutto era dovuto, o i tentativi odierni mediamente piccanti, ma tutto sommato apprezzabili, da Smetto quando voglio (Sydney Sibilia, 2014) a Tutta la vita davanti (Paolo Virzì, 2008), storia di una laureata con lode in filosofia che va a lavorare in un call center. Non dimentichiamoci però degli USA contemporanei, che vedono ad esempio uno splendido Bread and Roses (2000), diretto da un duro come Ken Loach, che alla questione del lavoro ci tiene a tal punto da rifiutare il premio assegnatogli dal Torino Film Festival (che è un festival di tutto rispetto) nel 2012 per solidarietà coi lavoratori dell’evento con i salari più bassi.

Da cotanta cornucopia filmografica emergono centinaia, migliaia di film che in un modo o nell’altro, fosse anche perché il protagonista è un uomo che passa più tempo in ufficio che a casa, toccano il mondo del lavoro. C’è Antonio Albanese che fa L’intrepido (2013), o la Margin Call (2011) con Kevin Spacey e Zachary Quinto, ma anche la Marion Cottilard di Due giorni, una notte (Fratelli Dardenne, 2014) e il meno in evidenza I lunedì al sole (Fernando Léon de Aranoa, 2002) che vede un gruppo di disoccupati della Galizia in città a cercar lavoro.

Se il cinema si è affezionato al tema del lavoro, fin proprio dalle sue origini (fu d’altronde L’uscita dalle officine Lumière uno dei film proiettati durante il primissimo spettacolo dei fratelli francesi il 28 Dicembre 1895) va anche sottolineato come il lavoratore si sia appassionato al cinema. D’altronde, al di là delle bazzecole di noi trovatori del pelo nell’uovo, è da più di un secolo che la prima arte dell’immagine in movimento si palesa come forma di evasione, di fuoriuscita dal circolo della routine lavorativa quotidiana. Al cinema si deve proprio questo, l’essere in grado di liberarci, almeno per un paio d’ore, almeno ogni tanto, dal lavoro, che nobiliterà pure l’uomo ma a molti spacca le ossa, e pure l’anima. E buon Primo Maggio a tutti!